A differenza di come abitualmente capita di leggere su queste pagine, l’articolo di oggi non è propriamente informativo. È una sorta di riflessione “a voce alta”. Va detto che non soffro particolarmente il caldo, soprattutto se a bordo vasca con un cocktail in mano ma, tali condizioni difficilmente si verificano in ufficio. Scatta dunque il piano B: mi capita spesso di cadere in uno stato di paralisi “congelando” il corpo e lasciando libera di vagare la mente nella speranza di sfuggire temporaneamente alle temperature tropicali. Anche scrivere queste righe potrebbe essere l’estremo tentativo di sfuggirvi.
Sarà il cambio imminente di ufficio, sarà che abbiamo appena spento la prima candelina ma i bilanci e le riflessioni si susseguono durante i trip da calore.
Oltre al modo di relazionarci con la professione (questione irrisolta) in questi giorni si è affacciato un nuovo tema: il cliente ha sempre ragione?
Probabilmente Henry Gordon Selfridges non immaginava di partorire un tale mostro quando lo coniò per i suoi dipendenti. Tutti siamo clienti, ma solo alcuni di noi passano dall’altra parte della barricata per professione. Il designer in special modo, è nella scomoda posizione di doversi relazionare con chi, i clienti, li deve accalappiare. Durante il progetto ci si confronta con numerose problematiche e interlocutori, cercando di fare l’interesse dell’utente finale. Sfortunatamente i parametri di giudizio del cliente spesso non sono allineati con quelli dell’utente finale o con i nostri.
Tralasciamo le valutazioni puramente tecniche ed economiche che un imprenditore è tenuto a fare per valutare la fattibilità del progetto, per quelle semiotiche ed estetiche si apre spesso una voragine tra le parti.
Il creativo di turno (web master, pubblicitario o designer) armato delle migliori intenzioni propone quelle che a suo dire sono le soluzioni migliori per il problema da risolvere ma, la risposta che a volte ci viene data è:” non lo so non mi convince del tutto…” e poi viene estratta dal cilindro la “soluzione”. Il primo pensiero è: “se mi hai assunto ci sarà un motivo, perché vuoi fare il lavoro al posto mio?” seguito da: “ma pensa un talento naturale…”.
Non c’è cattiveria in queste righe ma solo la frustrazione che a volte ci tocca da vicino. Per evitare possibili fraintendimenti facciamo un esempio molto semplice. Dietro al banco della macelleria vediamo un robusto signore che maneggia con maestria un superbo pezzo di carne decantandone le qualità e suggerendo come utilizzarlo al meglio. L’avventore controbatte asserendo che quel pezzo verrà “bollito”. La tempestiva risposta è che quel procedimento altera le proprietà della carne rovinandone il gusto.
La situazione è la stessa di fronte ad un prodotto-servizio, il cliente obietta o quantomeno mette in discussione il lavoro del professionista di turno (che ci sta) ma si trincera dietro alle proprie convinzioni. La discussione può finire in due modi: il professionista si arrende accogliendo le richieste del cliente, oppure lo scaccia a male parole. La via di mezzo in questo caso non è percorribile.
Nasce spontanea una domanda, fino a che punto è giusto cercare di mantenere le nostre posizioni e quando è il caso di scendere a compromessi? Difficile a dirsi, le variabili sono numerosissime, dalle implicazioni che il progetto può portare al prestigio dell’azienda committente, senza tralasciare il compenso pattuito, perché non di solo design vive l’uomo.